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 Moda: il dragone veste italiano . Compratori potenti, stylist rampanti e tante ricche signore cinesi hanno invaso le sfilate milanesi. Ecco perché l’Italia dovrebbe sapere dire almeno "ni hao" (ciao in cinese)

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Moda: il dragone veste italiano . Compratori potenti, stylist rampanti e tante ricche signore cinesi hanno invaso le sfilate milanesi. Ecco perché l’Italia dovrebbe sapere dire almeno "ni hao" (ciao in cinese) Empty
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Moda: il dragone veste italiano


Compratori potenti, stylist rampanti e tante ricche signore cinesi hanno invaso le sfilate milanesi.
Ecco perché l’Italia dovrebbe sapere dire almeno "ni hao" (ciao in cinese)




Moda: il dragone veste italiano . Compratori potenti, stylist rampanti e tante ricche signore cinesi hanno invaso le sfilate milanesi. Ecco perché l’Italia dovrebbe sapere dire almeno "ni hao" (ciao in cinese) Moda.-Il-dragone-veste-italiano_h_partb

Year of the Dragon 2012, borsa di Versace prodotta in edizione limitata


All’Hotel Principe di Savoia di Milano sono preparati già da tempo. Gli ospiti cinesi non vogliono stanze al quarto piano (o che abbiano il numero 4 tra le cifre), prediligono la suite rossa, vogliono il bollitore in camera per il tè e un personal shopper che li porti a fare acquisti o alle sfilate. Non badano a spese, come al ristorante Bolognese, dove chiedono sempre i vini migliori, ma sempre di marche note, sottolinea il sommelier.

«Nell’ultimo anno il numero dei cinesi che acquistano nel quadrilatero della moda, a Milano, è raddoppiato» spiega il presidente dell’Associazione della via Monte Napoleone Guglielmo Miani. «A crescere di più nel corso del 2011 (secondo i dati Premier Tax Free, ndr) sono stati il turismo cinese (più 60 per cento), russo (più 31) e brasiliano (più 29). In termini di fatturato significa che il 20 per cento degli acquisti stranieri è dei cinesi» spiega.

A livello globale, secondo un report di Boston Consulting Group, la Cina triplicherà la sua spesa nel lusso rispetto al 2010, raggiungendo entro il 2020 i 163 miliardi di euro circa. «Non mi stupisce» spiega Saverio Moschillo, presidente del Gruppo Moschillo, proprietario di John Richmond. «Siamo arrivati in Cina 15 anni fa, con Richard Lee, nostro partner di Honk Kong. Il mercato è cambiato in questi anni. I cinesi sono esperti nel copiare, meno nel creare, e ora vogliono quello che non hanno: la qualità. A noi chiedono il massimo e sono disposti a pagare cifre folli per ottenerlo. Per questo non comprano più le nostre seconde linee» afferma.

E sebbene i punti vendita dei marchi italiani di Shanghai e Pechino siano aumentati, il flusso dei cinesi che vengono in Italia esclusivamente per fare shopping continua e aumenta di volume. «Cercano ciò che lì non hanno, si vogliono distinguere e sono pronti a tutto per riuscirci. Non sempre il brand più famoso è simbolo di prestigio per loro» spiega la personal shopper Margherita Perico, specializzata nella clientela araba e cinese. «Sono anche esigenti. Di solito dalla Cina vengo contattata dalla manager del cliente che mi invia richieste specifiche e chiede di svolgere una ricerca precedente al loro arrivo. Di solito rimangono una media di tre giorni e riescono a spendere anche 200 mila euro a visita».

La stilista Luisa Beccaria è tra i marchi di nicchia più amati, soprattutto per gli abiti da matrimonio. «Da noi arrivano per farsi cucire l’abito e non badano a spese. Tornano anche più volte» racconta la stilista. «In passato ho avuto la tentazione di aprire un monobrand in più città della Cina, ma poi ho capito che è necessario mettersi in società con un partner locale. Indipendentemente dalla serietà del partner, la Cina permette di investire lì, ma lo yuan (la valuta cinese, ndr) deve rimanere yuan. In parole povere, avrei dovuto reinvestire in Cina i soldi guadagnati e non me la sono sentita. Così ho capito che per i marchi come i miei, più di nicchia, conviene puntare sul multibrand». Ma i buyer (compratori) cinesi che arrivano in Italia per la settimana della moda acquistano? «Certo. Fanno anche ordini fino a 400 mila euro per un solo negozio, per questa stagione mi posso ritenere soddisfatta».

Tra i big italiani che hanno aperto monobrand in Cina, Prada, Ferragamo, Cucinelli e Moncler svettano in fatturati rispetto agli altri. Su quello globale di Gucci l’incidenza del mercato cinese sale ogni anno (al 22,6 per cento nel 2011, 46 i negozi in Cina). Ferragamo solo nel mercato cinese ha avuto una crescita del 44 per cento.

«Il lusso è un settore su cui l’Italia deve credere. A febbraio la nostra Associazione della via Monte Napoleone ha dovuto chiedere al premier Mario Monti una modifica sulla legge antiriciclaggio per permettere, almeno agli stranieri, di pagare fino a 15 mila euro in contanti nei negozi» conclude Miani. «E ci siamo riusciti. Altrimenti saremmo stati gravemente penalizzati. A chi lavora nel lusso, ricordo che possiamo fare ancora meglio: a Parigi il fatturato di questo settore proveniente dalla clientela cinese ha raggiunto il 50 per cento, rispetto agli stranieri». Che significa? «Che i francesi sono arrivati più preparati a gestire questa clientela. Conoscono meglio i loro gusti, le usanze e la lingua» conclude. «È una grande occasione per tutti, abituiamoci all’idea che la crisi si può vincere anche con le borsette».




Annalia Venezia
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